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Con sentenza 25896 depositata il 16 novembre 2020 la Corte di Cassazione introduce questo principio: "in tema di iva, è illegittima la pretesa del fisco di ottenere l'imposta dal cedente o dal prestatore che non abbia fatto ricorso al meccanismo previsto dall'art. 26 del d.P.R. n. 633/72 per mancato pagamento a causa di procedure concorsuali rimaste infruttuose, qualora questo meccanismo sia stato utilizzato dal cessionario o committente, e sia stato eliminato in tempo utile il rischio di perdita di gettito per l’erario".

Il caso

Una società cooperativa a responsabilità limitata vede notificarsi una cartella di pagamento per iva non versata relativa all’anno 1996. L’imposta si riferiva a fatture di vendita regolarmente registrate, di cui la società non aveva mai ottenuto il pagamento in quanto il cliente, in stato di insolvenza, era stato dichiarato fallito. Il curatore fallimentare aveva annotato la maggiore IVA dovuta. Il Tribunale aveva disposto, nel corso del contenzioso tributario, la chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo.

La Commissione tributaria provinciale di Roma respinse il ricorso, mentre quella regionale accolse l'appello della contribuente, facendo leva sulla tardività della notificazione della cartella (eccepita con motivi aggiunti in primo grado).

La sentenza relativa è stata cassata dalla Corte e, “(…) in esito alla riassunzione del giudizio, la contribuente ha fatto presente che il 20 aprile 2005 il Tribunale di Napoli ha disposto la chiusura del fallimento della s.r.l. (…) per insufficienza di attivo, sicché il proprio credito, ammesso in chirografo, è rimasto insoddisfatto”.

La CTR del Lazio respingeva l’appello della società sottolineando che il contribuente avrebbe potuto/dovuto emettere la nota di accredito soltanto alla chiusura del fallimento, “che comportava la «certezza della quantificazione del proprio credito»” .

Contro questa sentenza la contribuente propone ricorso in Cassazione.

La decisione della Cassazione

La Corte analizza la disciplina dell’Unione europea la quale, come ben sappiamo, è volta ad armonizzare e coordinare il trattamento dell’IVA nei paesi europei. Infatti, come indicato nei punti introduttivi della Direttiva n. 2006/112 “è (…) necessario realizzare un’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sul volume di affari mediante un sistema d’imposta sul valore aggiunto (IVA), al fine di eliminare, per quanto possibile, i fattori che possono falsare le condizioni di concorrenza, tanto sul piano nazionale quanto sul piano comunitario”.

Innanzitutto, la Cassazione ricorda che i “(…) soggetti passivi (…)” devono “(…) assolvere l'iva esposta in una fattura indipendentemente da qualsiasi obbligo di versarla in ragione di un'operazione soggetta a iva (…)" . Questo per “(…) eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, che può derivare dall'esercizio del diritto di detrazione (…). La base imponibile dell'iva, peraltro, è ragguagliata al corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo e l'amministrazione tributaria non può riscuotere a tale titolo un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo”. Nella direttiva (paragrafo 1 dell’art. 90 – corrispondente all’art. 11, parte C, della sesta direttiva) viene previsto l’obbligo di assolvere l’iva in capo ai soggetti passivi, così come l’obbligo di ridurre l’importo dell’iva dovuta se – successivamente alla conclusione dell’operazione – “una parte o la totalità del corrispettivo non sia (…) percepita”. Il successivo paragrafo 2 consente agli Stati membri “(…) di derogare a tale norma in caso di mancato pagamento, totale o parziale (…)”.

Come mai è prevista questa facoltà di deroga? Essenzialmente perché vi sono dei casi in cui “l'omesso pagamento, totale, o parziale, sia difficile da verificare oppure abbia carattere puramente temporaneo (…). In generale, quindi, della conseguente incertezza si tiene conto privando il soggetto passivo del suo diritto alla riduzione della base imponibile finché il credito non presenti un carattere definitivamente irrecuperabile”.

Tali principi sono stati recepiti dall’articolo 26 del DPR 633/72 che prevede al secondo comma: “se un'operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione (…), viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l'ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali (…) il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell'articolo 19 l'imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell'articolo 25”. Il momento in cui potrà essere “recuperata l’iva” corrisponde a quanto il credito si considera “definitivamente irrecuperabile”. Nel caso di fallimento l’Agenzia delle Entrate ha previsto nella Circolare 77/E del 2000 “al fine di individuare l’infruttuosità della procedura occorre fare riferimento alla scadenza del termine per le osservazioni al piano di riparto, oppure, ove non vi sia stato, alla scadenza del termine per il reclamo al decreto di chiusura del fallimento stesso”. Concetto ribadito anche dalla più recente Circolare 8/E del 2017. Posizione, questa ampliamente condivisa dalla Giurisprudenza di merito.

La Corte di Cassazione, però, focalizza l’attenzione in termini pratici sulla durata pluriannuale dei fallimenti in Italia e su come questo possa avere un impatto sulla liquidità e sulla capacità di essere concorrenziali in Europa. Questa situazione è ancora più “pericolosa” nel contesto di crisi che stiamo vivendo poiché rischiano il dissesto anche soggetti generalmente sani. “Per accordare il diritto alla riduzione della base imponibile, allora, è sufficiente che il soggetto passivo evidenzi l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque (punto 27 della sentenza Di Maura). E ciò proprio perché la certezza della definitiva irrecuperabilità del credito può essere acquisita, in pratica, solo dopo una decina di anni, a causa della durata, in Italia, delle procedure fallimentari”.

Nel caso di specie, secondo la Cassazione non rileva il fatto che il cedente né prima né dopo il decreto di chiusura abbia emesso la nota di accredito. Da un lato, infatti, vi è il “(…) diritto del fornitore di ridurre la base imponibile (…)” e dall’altro “(…) l’obbligo di rettifica della detrazione operata inizialmente quando questa sia inferiore o superiore a quella a cui il soggetto passivo cessionario abbia diritto (art. 184 della direttiva iva)”. Rettifica che deve esser compiuta “(art. 185, paragrafo 1, della direttiva iva) quando, successivamente alla dichiarazione dell’iva, intervengano mutamenti degli elementi presi in considerazione per determinare l'importo della detrazione”. Pertanto, “(…) la condotta del cessionario/committente è destinata a riverberare i propri effetti sulla posizione del cedente/prestatore: e ciò perché si tratta di due facce di una stessa operazione economica, che devono essere valutate in modo coerente (Corte giust. in causa C-396/16, cit., punto 35)”. “L’obbligo di rettifica del cessionario/committente non dipende dalla rettifica dell'iva dovuta dal fornitore, perché l'emittente della fattura è debitore dell'iva ivi indicata (…)”. Ma l'obbligo di assolvere l'iva da parte del fornitore “(…) non deve eccedere quanto necessario per il raggiungimento dell'obiettivo dell'eliminazione del rischio di perdita di gettito fiscale (…)”.

Nel caso oggetto di contendere il soggetto cessionario (ovvero il curatore fallimentare) aveva annotato la maggior IVA dovuta prima della chiusura del fallimento, andando ad eliminare qualsiasi effetto di perdita anche per il Fisco. Non sarebbe, pertanto, possibile pretendere dal cedente (solo perché non ha emesso la nota di accredito) il pagamento dell’IVA.

La condotta attuata dal cessionario ha effetto anche sulla posizione del cedente, poiché “neutralizza l’imposta”.

Spunti critici

Questa sentenza riabilita l’interpretazione già sviluppata dalla giurisprudenza di alcune commissioni (C.T. P. di Vicenza con Sentenza n. 145/2/2019), della Corte di Giustizia Europea (che richiama) e di parte della dottrina. In particolare, soffermandoci sulla causa C-246/16 promossa da Enzo Di Maura contro Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Siracusa, nella quale la Corte con sentenza del 23 novembre 2017 conclude affermando che “l’articolo 11, parte C, paragrafo 1, secondo comma, della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni”.

Tuttavia, è auspicabile un intervento del legislatore che risolva in definitiva la controversa questione. La sentenza della Cassazione qui analizzata, infatti, focalizza un caso particolare nel quale, il curatore (cessionario) ha provveduto autonomamente ad annotare nel registro iva la variazione dell’iva medesima. Nella trattazione della causa però vi è il richiamo a diversi principi della giurisprudenza comunitaria che lasciano intravedere una nuova apertura.

Questo intervento era stato “abbozzato” anche con il recente decreto agosto dove - secondo quanto previsto dall’art. 90 - l’articolo 26 del DPR 633/72 doveva essere modificato prevedendo la possibilità che il semplice assoggettamento ad una procedura concorsuale permettesse ai fornitori di poter emettere la nota di accredito per iva. La legge di conversione però ha stralciato questa modifica. Nulla di nuovo visto che la medesima previsione era stata inserita nella Legge di bilancio 2016 e successivamente abrogata prima ancora che entrasse in applicazione.

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